Il periodo del colonialismo inglese alle Fiji è così lontano che restano poche vestigia di quegli anni. A Suva, la capitale nell’isola di Viti Levu, solo il Grand Pacific Hotel ne conserva ancora la memoria. Dopo la seconda guerra mondiale, cui parteciparono anche contingenti fijani, la regina Elisabetta soggiornò in una camera, durante una visita ufficiale, che porta oggi il suo nome.
Un giovane maitre mi guida all’interno dell’hotel e con fare complice mi porta a vederla, poi ci tiene a mostrarmi anche quella abitata più recentemente da Harry e Megan. Inoltre mi conduce fin sul tetto, luogo proibitissimo a suo dire, per cui recita la parte di quello che, per non farsi vedere dalla reception, mi fa nascondere sul ballatoio e passare di corsa da una scala all’altra. L’azione è finalizzata alla speranza di una lauta mancia, che comunque volentieri gli avrei dato anche senza tutta questa pantomima. In seguito lo incontrerò di nuovo nelle sale dell’albergo e ogni volta mi ammiccherà come se fossimo ormai complici di chissà quali bravate. Questo episodio, apparentemente insignificante, si presta invece a raccontare un carattere diffuso fra gli abitanti delle Fiji: una repubblica con un alto livello di corruzione, governata da un presidente che ha un mandato ad interim ottenuto con un colpo di stato per mano militare nel 2006 ed è ancora in carica.
La popolazione si divide fra quella indigena – che detiene il potere amministrativo – e quella di discendenza indiana, che mantiene quello economico. Gli indiani furono portati qui dagli inglesi in epoca coloniale per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, un tempo la maggiore attività produttiva. Infatti attraversando l’isola si notano coltivazioni ovunque. Ma oggi questa è un’economia al tramonto, indebolita dalle produzioni più efficienti dell’Australia e della Nuova Zelanda. Capita spesso di vedere lungo le strade di campagna i binari dei carrelli di trasporto delle canne abbandonati e coperti dalle erbacce.
Il settore più in crescita è quello del turismo, oggi congelato dall’esplosione della pandemia. Il governo invita ad investire alle Fiji e si rivolge soprattutto ad un turismo di lusso. Si accolgono a braccia aperte i super yachts per i quali si facilitano le pratiche di accesso, mentre per le barche a vela come la nostra non è semplice entrare a Port , l’unica marina obbligatoria per chi viene dal mare. Il governo in questi giorni sta promuovendo una campagna di accoglienza solo per chi ha molti soldi da spendere e aspetta l’arrivo di centinaia di barche di lusso secondo lo slogan “escape the pademic to paradise”.
Si cerca così di risollevate l’economia dai mancati guadagni del turismo tradizionale, quello dei grandi resort che si trovano sulla costa meridionale di Viti Levu, ma soprattutto sulle isole degli arcipelaghi delle Mamanuca e delle Yasawa. Per fare un esempio, Larry Page, il fondatore di Google, ha acquistato l’isola di Namotu (proprio a poche miglia di fronte a noi) e vi è arrivato con un jet privato per passarvi tre mesi di vacanza con 30 persone del suo staff. In questi giorni alcuni fornitori locali e agenzie di servizi al turismo lavoreranno quasi esclusivamente per loro, fuggiti dalla pandemia per approdare appunto in paradiso.
A livello geopolitico l’Australia e la Nuova Zelanda si stanno contendendo gli interessi sulle Fiji, ma gli investimenti della Cina sono sempre maggiori e il futuro di queste isole dipende da chi vincerà questa partita. Ma questi non sono i problemi della gente comune e neanche dei turisti, i quali di rado vedono la realtà di questo paese, perché dall’aeroporto di Nadi vengono trasportati direttamente ai resort.
Viti Levu è una grande isola dove vive la maggior parte degli abitanti delle Fiji. La parte sud occidentale è quella turistica, il clima è migliore e splende sempre il sole. Il lato occidentale dove si trovano i maggiori comparti produttivi è invece più umido, piove spesso ed è esposto ai venti forti di sud est che alzano mare e portano cattivo tempo. Qui si trova Suva, una città non bella, che sembra essersi ampliata negli anni senza nessun piano urbanistico. L’immagine delle spiagge bianche contornate da palme da cocco e lambite da acque turchesi è il volto turistico delle Fiji, quello delle isole disabitate e quello dei resort; ma è molto diverso dalla realtà urbana e dalle campagne di Viti Levu, dove la gente vive con poco e abita in baracche di lamiera lungo la strada costiera.
In questi mesi ho avuto modo di visitare alcune isole del sud Pacifico, soprattutto in Polinesia, adesso Fiji, e la realtà che ho visto è molto diversa dalla percezione che abbiamo tutti noi in Europa. Solo il nome di Fiji, Bora Bora, Tahiti, suscita immagini da sogno un po’ stereotipate per cui chi viene qui in vacanza si ritrova a vivere esperienze tutte simili, tutte uguali: che sia in Polinesia o alle Maldive poco cambia. Ma appena si mette il naso fuori dalle rotte progettate per il turista, allora ci si trova di fronte alla vita vera, con tutte le sue contraddizioni, i suoi problemi, ma anche le sue caratteristiche di originalità. In questo periodo è ancora più facile uscire da questi schemi precostituiti perché non ci sono turisti, i voli internazionali in arrivo sono sospesi da mesi e i resort sono chiusi. Ogni mattina vado a correre in un campo da golf da 18 buche perfettamente manutenuto: l’erba dei green curata al millimetro, i banchi di sabbia ben rasati, i caddy carts disposti in fila davanti al golf club chiuso. Corro fino al mare senza incontrare nessuno, tutto è deserto, disabitato, come in un paese di fantasmi.
Giorni addietro abbiamo preso un auto in affitto per esplorare l’isola. Visitare un villaggio dell’entroterra è un’esperienza impegnativa perché le strade bianche sono piuttosto dissestate. Comunque siamo partiti alla volta di Navala di buon ora. Lungo la strada ci siamo fermati al mercato di Ba perché ci avevano detto di portare della Kava in dono al capo del villaggio. La Kava è una droga locale dagli effetti rilassanti, si ottiene dalla lavorazione in povere di una radice della famiglia della pianta del pepe ed è così diffusa che ogni mercato ha un’intero reparto dedicato ai venditori di questo prodotto. Così siamo ripartiti per inerpicarci sui monti, forti del dono che avevamo con noi. Ci sono volute tre ore di viaggio per raggiungere il villaggio, uno dei più caratteristici dell’isola, ma quando siamo arrivati una signora ci ha fermato all’ingresso finché non è arrivato quello che lei ci ha presentato come capo: un giovane robusto che sembrava impaurito dalla nostra presenza come possibili portatori di contagio. Si sarebbe convinto solo dietro un pagamento veramente eccessivo per ognuno di noi! Per rassicurarlo gli abbiamo spiegato che avevamo fatto un test prima di entrare a Fiji, poi gli abbiamo donato la kava e ce ne siamo andati desolati per essere stati rifiutati.
Molto probabilmente se non fosse scoppiata questa pandemia anche noi avremmo navigato solo fra isole d’incanto e gettato l’ancora di fronte a spiagge meravigliose. In questo senso possiamo dire che il Covid 19 ci ha aperto gli occhi e ci ha dato modo di vedere il vero volto di questa parte del mondo. E adesso mi trovo a fare riflessioni che poco hanno a che fare con la vela o con la navigazione, ma che invece ci mettono di fronte a una realtà cruda in cui alla paura del contagio si associano le dinamiche di società sempre meno paritarie e sempre più ingiuste. Milanto sta vivendo un’avventura nell’avventura, cercando di farsi domande e di andare avanti in questo lungo ritorno verso casa.